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Superare i momenti di crisi, le avversità della vita: eroismo o resilienza?

Sulla rubrica “Il caffè” di Gramellini del 7 Dicembre leggo la storia di un medico ortopedico e di un incidente automobilistico, causato da altri, che lo ha reso paraplegico. Gramellini con la sua efficacia narrativa ci racconta della capacità di reagire di quest’uomo che al posto di rassegnarsi al suo destino e lamentarsi “trasforma il baratro in un trampolino”, “nuota fino alle Paraolimpiadi di Rio e ricomincia a operare da seduto” e per poter effettuare interventi medici complessi utilizza una protesi, “un esoscheletro” che gli permette di sollevarsi in posizione eretta e “aggiustare agli altri ciò che nessuno potrà più aggiustare a lui”.

Stiamo parlando di resilienza, della possibilità di una persona di far fronte alle avversità, alle prove della vita e di superarle, di continuare a vivere.

Gramellini, da bravo giornalista, ci proprone l’immagine di una persona che ce l’ha fatta, ci presenta la fotografia di una vittoria, una favola a lieto fine che ci dà gioia e, come ogni favola, ci fa dormire più tranquilli. Ma la vita reale è più ricca e complessa.

Il racconto di Gramellini è sicuramente una testimonianza positiva, che apre la porta alla speranza e dimostra che non esiste un destino ineluttabile. E’ una storia che ci aiuta ad abbandonare il rapporto causa – effetto per cui chi è disabile o ha subìto un altro evento traumatico è fuori gioco, rimarrà rinchiuso solo e sempre in quella situazione e descrive la potenza creatrice che può scaturire da un momento di grave crisi e difficoltà.

La stessa testimonianza però, a mio parere, propone un’immagine statica e parziale che, partendo dal lieto fine, omette la dimensione del dolore e della fatica che si accompagna alla ripresa di uno sviluppo e non considera la dimensione sociale della resilienza. Il rischio di questa visione eroica è di promuovere la cultura del più forte sul più debole con un possibile effetto scoraggiante su chi si trova a confrontarsi con delle avversità e non si sente così tanto forte. In quest’ottica che mette in luce solo la dimensione della possibilità intrinseca a ogni essere umano, chi fa fatica a rialzarsi da un evento traumatico può sentirsi giudicato e colpevolizzato per il proprio dolore e lasciarsi schiacciare dall’idea che c’è chi ce la fa e chi non ce la fa.

Il termine resilienza è stato coniato in fisica per descrivere l’attitudine di un corpo a resistere a un urto, la capacità di un materiale di sopportare sforzi applicati bruscamente senza rompersi. Negli anni Ottanta questo concetto è stato ripreso dalle scienze sociali come metafora della possibilità della persona ferita nell’anima in seguito ad un evento drammatico di ritornare, non alla vita precedente, ma a un’altra vita appassionante quanto difficile. La differenza di questo concetto applicato all’uomo è che non si tratta di una proprietà data, di una caratteristica che si può o meno possedere, ma piuttosto di un processo dinamico che si attua nel corso dell’esistenza e deve tener conto di molteplici variabili individuali, familiari e sociali.

La possibilità di una persona di superare le avversità dipende da molte caratteristiche personali, è responsabilità personale ma risente anche del sostegno familiare, comunitario e della cultura di appartenenza e richiama quindi anche a una responsabilità sociale. Amos Oz (2004) ci invita a riflettere sul fatto che non siamo isole ma penisole che si affacciano sul mare: per metà siamo attaccati alla terra ferma e per metà di fronte all’oceano, per metà legati alla famiglia, agli amici, alla cultura. L’ambiente circostante ha quindi un ruolo fondamentale nel processo di resilienza e può sostenerlo, disturbarlo o impedirlo. La vulnerabilità è vissuta anche in funzione degli ostacoli che la società crea e per superare le avversità e divenire resiliente ogni persona ha bisogno anche di essere sostenuta, di un contesto capace di aiutare e di una cultura che favorisca l’inclusione. Ogni persona vive quindi il suo dramma interiore ed esteriore in modo unico e originale a seconda di come interagiscono molteplici circostanze individuali e sociali: il tipo di evento critico, il significato che assume nel contesto di riferimento, le risorse interne individuali, le possibilità di incontro, dialogo, ri – significazione sono alcuni dei fattori che possono entrare in gioco. Bisogna poi considerare la variabile tempo: quando si è colpiti da un evento tragico, quando ci si trova in situazioni difficili, il dolore prevale e la persona ha bisogno innanzitutto di silenzio, di rispetto e di trovare una mano e la forza di risollevarsi secondo i suoi tempi e le sue modalità.

Il processo di resilienza, nell’essere umano è dunque un processo che deve tener conto di molte variabili temporali individuali e sociali che si intrecciano tra loro in modo complesso. Complesso non significa però complicato o difficile, anzi è proprio questa complessità che consente di allargare l’angolo di lettura considerando la persona non, in modo semplicistico come dotata o meno di un’attitudine alla resilienza, ma come un soggetto in continua evoluzione e parte di un contesto, in cui in ogni momento sono insite risorse e possibilità di cambiamento.

Spesso i mass media ci propongono modelli di successo e di forza individuale ma questo modello di super uomo è di ostacolo alla resilienza, alla possibilità di accettare le crisi che immancabilmente si incontrano nella vita che, al contrario, per essere favorita richiede modelli di inclusione, di accettazione del limite, della diversità, della fragilità umana.

Nell’essere umano la resilienza non è una molecola che si può o meno possedere, non è qualcosa di dato e acquisito una volta per tutte, ma esiste come possibilità in forma latente e, secondo la storia di ciascuno, può trasformarsi in processo attivo: non è qualcosa che si ha o non si ha, ma qualcosa che si può sempre coltivare. La resilienza non ha un tempo prestabilito, richiede attesa e la capacità di riconoscere i segnali positivi che comunque persistono nonostante i limiti e il dolore. Si tratta di positivizzare lo sguardo sull’altro, di non ridurlo ai suoi problemi ma considerare sempre anche le potenzialità: il dolore e il limite non si cancellano, ma accanto ad essi sono presenti sempre anche le risorse e la voglia di continuare a vivere.

La resilienza non è eroismo. La vita non è una favola dove forte e debole sono separati, ma è una commistione di buio e luce, vulnerabilità e invulnerabilità. La vulnerabilità è una condizione propria di ogni esistenza ma ogni persona di fronte alle avversità, pur con sofferenza, può sempre decidere di rialzarsi, di crearsi un “esocheletro” per continuare a stare in piedi. Per fare questo, per resistere, per superare le crisi abbiamo bisogno di qualcuno che ci sostenga e di una cultura che favorisca l’inclusione. Non siamo isole ma penisole: ognuno rispetto alla resilienza è responsabile anche degli altri e ognuno di noi per potersi rialzare ha bisogno di chiedere aiuto a chi gli sta vicino.

Per chi volesse approfondire suggerisco questa lettura: “Educarsi alla resilienza” di Elena Malaguti