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Desiderio irrefrenabile di cibo. Come il nostro stato mentale influenza il senso di sazietà.

Alimentarsi è una necessità biologica fondamentale, essenziale per la vita dell’individuo. Allora perché può diventare un problema per molte persone? Per quale motivo una necessità biologica può scompaginarsi al punto tale da indurre una ricerca di senso di sazietà mai soddisfatto?

Un vero rompicapo, un non-senso, un problema che nella nostra società sta mettendo a dura prova il benessere di molte persone, destando non poche preoccupazioni nei medici e negli psicologi che si occupano dei disturbi del comportamento alimentare e che sperimentano senso di impotenza di fronte a pazienti refrattari a cambiare il proprio stile di vita.

Prescrivere a una persona con obesità e sedentaria di seguire una dieta e di praticare attività sportiva è di una semplicità elementare, non lo è, al contrario, aiutarla a trovare le giuste motivazioni per riprogrammare il proprio stile di vita.

Legame tra cibo ed emozioni                            

Nel vasto universo delle esperienze umane, poche connessioni sono così intrinsecamente intrecciate come quella tra cibo ed emozioni. L’alimentazione non è solo un atto biologico necessario per la sopravvivenza, ma è anche una forma di espressione sociale, culturale ed emotiva.

Fin dai primi di giorni di vita, il legame tra nutrizione ed emozioni inizia a prendere forma. Il calore della madre mentre nutre il neonato al seno non solo soddisfa il suo appetito fisico, ma crea anche il forte legame emotivo tra madre e figlio. Questo atto di nutrimento diventa un momento di intimità e conforto, associato a sensazioni di sicurezza e amore.

Crescendo il bambino continua a sviluppare il legame tra cibo ed emozioni. Spesso gli adulti condizionano l’attitudine del bambino verso il cibo. Il cibo può essere presentato come una ricompensa: “se farai il bravo ti darò una caramella”. Oppure come una consolazione: “non piangere, andiamo a prendere un gelato”. Si tratta spesso di cibi zuccherati che verranno associati a emozioni precise.

Con il passare del tempo, le emozioni continuano a influenzare le nostre scelte alimentari e viceversa. Quando siamo stressati, ansiosi o tristi, tendiamo a cercare conforto nel cibo. Il “comfort food” diventa un rifugio emotivo, in grado di alleviare temporaneamente il disagio interiore.

Tuttavia, questo legame tra cibo ed emozioni può anche portare a comportamenti alimentari disfunzionaliquando le emozioni prendono il sopravvento sulle reali necessità fisiche.

Il cibo come autocura

Per quale motivo, dal piacere di gustare un dolce si può arrivare a mangiarne a dismisura senza alcun controllo? Perché l’esperienza alimentaregenera un piacere che può diventare la base di una vera e propria dipendenza?

Come abbiamo visto esiste uno stretto rapporto tra emozioni e cibo e determinati cibi, definiti “confort food” sembra che abbiamo il potere di alleviare il disagio e tenere a bada certi vissuti emotivi. Alcune persone, di fronte all’incapacità di gestire e, spesso, persino di prendere contatto con le loro emozioni, possono fare ricorso al cibo come fonte di autocura.

Il ricorso al cibo come autocura permette di:

 

  • Riempire dei vuoti
  • Anestetizzare certi vissuti emotivi
  • Gestire delle frustrazioni
  • Calmare delle paure
  • Lottare contro l’angoscia e l’insicurezza
  • Compensareciò che non si è avuto durante l’infanzia (amore, sicurezza, fiducia…)
  • Cercare conforto
  • Stabilizzare il proprio umore
  • Esprimere ciò che non si riesce a dire a parole

L’esperienza dell’assunzione di cibo nasce da un bisogno prettamente biologico, ma diventa presto anche un’esperienza psicologica: attraverso l’atto del cibarsi si richiama il senso di accudimento ricevuto dalla madre e di sicurezza derivante dall’ambiente familiare. La fame, da stimolo puramente biologico, muta nel bisogno disperimentare nuovamentequell’accudimento e quel senso di sicurezza propri della prima infanzia.

Il cibo assume così una valenza più ampia, diventa il termometro dell’affetto ricevuto, il richiamo dell’altro, l’ammortizzatore delle tensioni interne, l’allontanamento da tensioni difficili da tollerare.

Da mera esigenza biologica, l’alimentazione diventa un problema anche culturale e relazionale con inevitabili risvolti psicologici a livello individuale.

Si crea un circolo vizioso tipico dell’esperienza umana, un circolo che dal piacere può condurre alla frustrazione e alla sofferenza.

Motivazione e forza di volontà

Da esperienza piacevole, assumere cibo può diventare un ostacolo al benessere di un individuo.

Stili di vita disfunzionali, cattive abitudini alimentari, fino a veri disturbi del comportamento alimentare hanno un notevole impatto statistico sulla popolazione generale e sono spesso associati a patologie organiche.

L’assunzione di calorie in eccesso (perché mangio più del dovuto e non riesco a controllarmi?) risponde al persistente e irrefrenabile bisogno di cibo (craving). Ecco, quindi, che vengono attuate condotte disadattive quali la ricerca di cibo in ogni momento della giornata e il qualsiasi contesto (a casa, nel luogo di lavoro, di notte…). Il perpetuarsi di tali condotte evolve in una modalità comportamentale che il soggetto fa stabilmente propria sino a quando suona il campanello d’allarme rappresentato dal manifestarsi di patologie organiche che, sino a quel momento, sono rimaste silenti (iperglicemia, ipertensione…).

Qualsiasi sforzo di alimentarsi in modo corretto, adottando un regime alimentare sano, finisce per risultare vano e innesca, di conseguenza una profonda frustrazione, un senso di impotenza (non ce la farò mai) che sfociano in una rovinosa rassegnazione.

La motivazione al cambiamento costituisce il primo passo per modificare il proprio comportamento alimentare: essere motivati vuol dire avere un obiettivo, uno scopo concreto da raggiungere. La motivazione consente il passaggio all’azione con la conseguente assunzione di responsabilità.

Ma non è solo una questione di volontà.

Perché pur essendo motivati a raggiungere un determinato obiettivo è così difficile rispettare i programmi elaborati? Perché è così difficile controllarsi?

Sembra quasi che la volontà si smembri, si dissolva nella mente per cedere il posto alla gratificazione del momento (il senso di maggiore sazietà o il desiderio predominante e insoddisfatto di assaporare qualcosa che piace) e l’obiettivo iniziale scivola in un’insidiosa procrastinazione: ci si mette a dieta domani!

Tale dinamica psicologica è alla base del fallimento del tentativo di cambiare, fallimento che si porta dietro l’inevitabile carico di delusione, senso di colpa e impotenza (non ce la farò mai!) che determina il radicarsi di uno stato d’animo rinunciatario e che, per converso, rafforza comportamenti alimentari disfunzionali.

Comportarsi in maniera incoerente con sé stessi proprio quando bisognerebbe essere più determinati implica uno svilimento del futuro: si allontana l’obiettivo, ci si accontenta della gratificazione immediata, seppur fugace e transitoria. È la spinta emozionale, con il suo ridotto orizzonte temporale, a prevalere sulle scelte razionali.

I processi consapevoli sono più graduali nel loro svolgimento. La mente tende, di fronte a determinati stimoli e a condotte consolidate, a comportarsi come ha imparato da tempo (schemi ricorrenti), come si è sempre comportata.

Le emozioni sono, per loro natura, incalzanti, urgenti. In una visione a lungo termine, le risposte comportamentali richiedono, pertanto, un buon controllo delle “emergenze emotive” in favore di risposte ponderate e ragionate, funzionali al perseguimento del proprio benessere.

La chiave di volta consiste dunque nell’aiutare la persona a integrare meglio le diverse funzioni della mente: una maggiore integrazione e sinergia tra la dimensione razionale e quella emotiva favoriranno il cambiamento delle abitudini disfunzionali.

Importanza della consapevolezza

La consapevolezza di sé non è una semplice abilità cognitiva data dal pensiero, piuttosto consiste nell’essere presenti a sé stessi: è data dal proprio modo di essere, di vivere le proprie sensazioni, dalla integrità e funzionalità del proprio mondo emotivo e di quello cognitivo.

Tra la conflittualità derivante dai fattori motivazionali che affondano le radici nell’inconscio e quelli del Super Io, vi è l’Io, ossia il ponte, sorretto dal principio di realtà, tra le esigenze del mondo inconscio e quelle del mondo concreto. La sua funzione è quella di mediatore tra le istanze interne e quelle esterne (emotive e cognitive) al fine di attuare un comportamento appropriato e funzionale.

Il primo passo per comprendere e indirizzare lo stato mentale che condiziona la fame è l’acquisizione e l’accrescimento del proprio livello di autoconsapevolezza. Le domande di seguito proposte costituiscono una buona base di partenza.

  • Provo una generale soddisfazione per il mio modo di essere?
  • Quali sono i momenti e le attività che mi danno maggiore serenità e benessere?
  • Mi capita di essere impulsivo, di perdere il controllo della situazione con insolita frequenza?
  • Il mio stile alimentare è adeguato? In che modo mi rapporto al cibo? Sono soddisfatto della mia alimentazione?
  • Ho abitudini alimentari che sfuggono al mio controllo?

La fotografia delle proprie condizioni di vita e dei processi che avvengono nella propria vita intrapsichica è un valido aiuto nell’innalzare il livello di autoconsapevolezza, nel riconoscere che si persevera su una strada diversa da quella funzionale al proprio benessere.

Quindi non è questione di buona volontà, ma di maturità della persona che, a un certo punto della propria esistenza, capisce che, per stare bene, deve modificare il proprio modo di agire nel mondo.

La volontà di esporci a una dieta alimentare non basta affinché la dieta vada a buon fine. Gli aspetti psicologici ed emozionali sono alla base delle nostre scelte alimentari. Attraverso un percorso psicologico sarà possibile costruire un nuovo modo di intendere il legame tra cibo ed emozioni.

Riconoscere ed affrontare il ruolo disfunzionale del cibo nella regolazione emotiva è essenziale per promuovere un rapporto sano con il cibo e con sé stessi.

 

Bibliografia:

Pellegrino F., Parrino C., Pasqua M. (2024); Psicologia della nutrizione; Ed. Springer.