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La fatica di crescere

La crescita non è solo un processo spontaneo della natura, che avviene perché deve avvenire, perché siamo fatti così, perché l’impronta genetica è questa. Esiste un quid, un qualcosa che, pur muovendosi nelle leggi generali della natura, non può essere previsto per filo e per segno.

Un aspetto di questa singolarità per certi versi imprevedibile è il lavoro mentale o l’elaborazione psichica che comporta fatica, ma di cui non si può fare a meno se si vuole crecere in umanità.

Se la mente non cresce in modo adeguato siamo a rischio di patologia.

Chiediamoci quindi, da un punto di vista psicologico, in che cosa consiste il lavoro della crescita.

Dal bambino all’adulto

Il bambino non ha capacità di impatto diretto con il reale, né si ritrova un’abilità di elaborare mentalmente gli stimoli ambientali. In sostanza, reagisce agli stimoli con l’armamentario istintuale che già si ritrova.

Crescere significa diventare, via via, più abile, più consapevole, più adeguato alle circostanze, più introdotto nella realtà.

Dunque il bambino mostra un atteggiamento sostanzialmente inadeguato di fronte al reale, al punto tale che ha bisogno di una presenza adulta per stare al mondo, mentre l’adulto degno di tale nome supponiamo che sia una persona in grado di muoversi abbastanza bene, di badare a se stesso, di essere adeguatamente introdotto nel reale. Come direbbe Freud il principio che muove il bambino è il principio del piacere, mentre quello fondamentale che muove l’adulto è quello di realtà.

L’adolescente

L’adolescenza è un’età di passaggio da una mentalità infantile dominata dal principio di piacere a una mentalità adulta avente come premessa base il principio di realtà. Nel ragazzo, semplicemente le parti della mentalità prevalentemente adulta sono maggiori che nel bambino, ma non sono stabilizzate come nell’adulto.

Di qui quegli strani passaggi repentini da un estremo all’altro, tanto bambino e tanto adulto, tanto maturo in certe parti del suo agire e del suo pensare e tanto immaturo in certe altre.

L’infantilismo

I disturbi mentali si possono considerare come regressioni infantilistiche, vale a dire ritorno a vecchi modi di fare e di pensare anacronistici rispetto all’età anagrafica.

Nondimeno, non bisogna a questo punto condannare tutti i residui dell’infanzia che restano negli adulti. Possiamo in qualche modo ritenere che l’adulto è effettivamente tale quando sa ben armonizzare l’infantile e l’adolescenziale che permangono in lui con le esigenze della vita propriamente detta. Altrimenti si scade nell’adultismo, negatore delle esigenze di giocosità, di fantasia, di stupore tipico degli inizi.

Si può affermare che il principio del piacere non viene mai negato nel corso dell’esistenza e, se questo accade, molto gravi risultano essere le conseguenze per la personalità. Piuttosto si tenta di armonizzarlo con quello della realtà in maniera da costruire un modo di stare al mondo il più possibile positivo. Quando il principio del piacere resta predominante anche nell’adulto, senza essere sottoposto alle valutazioni del caso, si manifesta il disagio mentale.

Le condizioni della crescita

Domandiamoci ora quali sono le condizioni che consentono la crescita, ossia quel lavoro mentale destinato a spostare la priorità dalla premessa piacevole a quella reale.

La risposta è semplice: la crescita è possibile grazie a una presenza adulta, una persona adeguata al reale e capace di padroneggiarlo. Ma occorre precisare che la biologia è insufficiente per rendere conto di quell’adulto che aiuta a crescere. I desideri e i bisogni del bambino vanno molto al di là delle capacità di soddisfazione della mamma fisica.

Il codice materno

Possiamo dire che esiste un codice infantile, dominato dalla richiesta di essere soddisfatto e un codice materno caratterizzato dalla risposta a questa richista e definito accuditivo.

Prendersi cura, farsi carico ed espressioni simili fanno tutte riferimento al codice accuditivo materno che esiste in quanto in relazione con il codice dipendente infantile.

Si capisce quindi come non sia questione di età. Un figlio può diventare la madre della propria madre anziana quando se ne prende cura. Una moglie diventa mamma del proprio marito quando gli prepara i vestiti per il giorno dopo. Un marito è la mamma della propria moglie quando la porta in giro perchè lei non sa guidare. Un operatore è mamma del proprio paziente quando lo prende in carico. Un’insegnante è mamma del suo alunno quando gli dona il suo sapere.

Come si può evincere i due codici sono una premessa relazionale sempre in atto quando dipendiamo dagli altri o gli altri da noi.

Il codice paterno

Ma quasi subito facciamo l’esperienza che la realtà non si dona a noi nella quantità e nel tempo che adottiamo come misura della soddisfazione del bisogno e del desiderio tesa all’ottenimento del piacere, il così detto “tutto subito”.

Il seno materno comincia a farsi attendere, poi iniziano a farsi avanti pappe indigeste che immediatamente rifiutiamo. Si chiama svezzamento.

In che cosa consite? Consiste nel fatto che la realtà inizia a chiedere di adeguarsi ad essa, non ci accudisce più nella misura del nostro desiderio immediato e totalizzante ma secondo la sua misura e la sua regola che un giorno riconosceremo come più adeguata al nostro benessere personale.

Siamo quindi giunti al codice regolativo paterno, che ci introduce nel reale portandoci fuori dal grembo materno, che ci fa capire che esiste una realtà a cui dobbiamo rispondere e che non risponde alle nostre esigenze.

Il codice fraterno

E’ facile amare la mamma perché procura piacere, è difficile amare il papà perché ci procura la negazione totale e immediata dello stesso piacere. Rabbia, collera e aggressività caratterizzano il primo impatto con la funzione regolativa.

Ma se si supera questa fase, si può anche amare il papà perché tutto sommato fuori dal grembo materno non si sta poi tanto male. La realtà, dopo un primo approccio spiacevole, una volta introdotti, può diventare molto piacevole. Che felicità! Si vuole tanto bene a mamma e a papà.

Peccato che sia nato quello lì. Si stava tanto bene in tre. Come si fa a riconquistare tutto l’amore perduto? Però è anche vero che mi sentivo un po’ solo in questa casa fatta di soli grandi.

Così appare il quarto e ultimo codice affettivo né accuditivo, né regolativo, né dipendente. La fraternità infatti è caratterizzata da un’ambivalenza solidal–competitiva sistematicamente presente nel gruppo dei pari: si sta bene insieme, ci si sente più forti, ma al contempo si gareggia per primeggiare e andare alla conquista del comune oggetto d’amore. Di fratelli al mondo ce ne sono sempre, anche quando mancano quelli biologici.

La buona famiglia

Il padre, come abbiamo visto, è il codice introduttivo al reale ma senza la base materna non ci sarebbe niente da introdurre. Bisogna saper dare prima di saper chiedere, ma se si dà senza chiedere si rimane fuori dalla realtà, dalla ragione. Se si chiede senza dare succede più o meno la stessa cosa: il bambino non viene fornito delle risorse necessarie per accedere al reale.

La buona famiglia interna è il riverbero psichico della buona famiglia esterna, reale, che sa ben armonizzare le varie istanze pur dentro le difficoltà.

Il fattore socio-culturale

L’orizzonte dei rapporti non si chiude nei rapporti familiari: i quattro codici affettivi informano anche le relazioni extra familiari e possono essere usati per contribuire alla crescita anche in altri ambienti quali la scuola e i luoghi del tempo libero.

Certi presupposti ipermaterni (ai ragazzi bisogna sempre donare, se i figli non funzionano è perché i genitori non hanno dato abbastanza) fanno parte dei luoghi comuni di cui tutti ci nutriamo.

Le famiglie non risultano più impostate sullo svezzamento, tanto è vero che si parla di “adolescenza prolungata”.

Le famiglie non sono più economicamente povere e ricche di prole, fattori che favorivano un’adultizzazione precoce e brutale. Oggi la ricchezza economica e il ridotto numero di nascite ha portato con sé le nuove patologie dell’età giovanile: anoressia, bulimia e varie forme di dipendenza.

Prevenire il disagio significa incidere anche a livello socioculturale su questi grandi fattori di rischio favorendo e sostenendo la fatica di crescere, la tensione a diventare grandi, a diventare uomini veri.

 

Bibliografia: Saverio Palumbo, “Prospettiva svezzamento”.