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Parole che curano

Nella pratica clinica, ma anche nella vita quotidiana, capita spesso di interrogarsi sull’arte della comunicazione: su quali siano le parole migliori da usare per entrare davvero in contatto con chi ci sta di fronte, in modo particolare quando ci si trova di fronte a situazioni critiche.

Che cosa può dire uno psicoterapeuta per aiutare un paziente gravemente depresso?

In che modo un medico può comunicare la diagnosi a una persona malata?

Con quali parole il genitore o il docente può entrare in relazione con un ragazzo adolescente?

Eugenio Borgna, nel suo libro: “Le parole che ci salvano” ci indica la strada da seguire perché le nostre parole non cadano nel vuoto o peggio ancora non feriscano l’interlocutore, ma possano arrivare a toccarlo, essere parole utili.

Come afferma Borgna non c’è autentica comunicazione se non quando si usano parole capaci di creare un ponte tra la soggettività di chi parla e quella di chi ascolta, tra la soggettività di chi cura e di chi è curato.

Comunicare è allora entrare in relazione con se stessi e con gli altri, è entrare in se stessi e poi uscirne per immedesimarsi nella vita interiore di un altro da noi: nei suoi pensieri e nelle sue emozioni. Noi entriamo in comunicazione e quindi in relazione con gli altri in modo tanto più intenso e terapeutico quanta più passione è in noi, quante più emozioni siamo in grado di provare e di vivere.

Non basta dunque scegliere le parole giuste, le più belle, le più delicate, ma per parlarsi davvero bisogna essere disposti a mettere in gioco se stessi fino in fondo, il proprio essere uomini di fronte a un altro essere umano, le proprie ferite e le proprie fragilità, solo così si può davvero entrare in empatia.

Da psicoterapeuta adleriana non posso che riconoscere in queste affermazioni alcune tematiche proprie del pensiero di Alfred Adler e in special modo la sua definizione di empatia come la capacità del terapeuta di “vedere con gli occhi , sentire con le orecchie e vibrare con il cuore dell’altro”.

Le parole che curano implicano quindi prima di tutto capacità di introspezione e immedesimazione che consentono di conoscere di volta in volta di quali parole abbiano bisogno le persone, sane o malate, con cui ci incontriamo e che possono essere di volta in volta parole silenziose o squillanti, sfumate o esplicite, leggere o profonde, ma che non devono mai mancare di umanità e accoglienza.

Non solo parole

Si comunica con il linguaggio delle parole, ma non solo, anche con quello del silenzio e con tutto il nostro corpo. Il senso delle parole che si dicono cambia nella misura in cui si accompagna al linguaggio del silenzio e a quello della voce, degli sguardi, dei volti e dei gesti.

Quando si incontra una persona sofferente è alta la tentazione di parlare, di riempire con parole le pause di silenzio di chi sta male, ma talora non ci rendiamo conto che al silenzio di chi sta male non può accompagnarsi altro che il silenzio di chi gli sta accanto. Non bisogna farsi trascinare dalla fretta di aggredire il silenzio senza cercare di ascoltarlo, a volte è più utile attendere e ascoltare piuttosto che parlare e scambiarsi uno sguardo, un sorriso.

Limiti e fragilità fanno parte di ognuno di noi

Per instaurare una relazione e  creare una vera comunicazione non basta dire cose sagge o usare belle parole ma è indispensabile un’autentica partecipazione emotiva. E’ necessario uscire dalla propria gabbia dorata e prendere coscienza delle ferite, della fragilità, di una certa follia presente in se stessi, di una certa complessità che è anche garanzia di ricchezza.

La fragilità è una spina nella carne ma è contemporaneamente la premessa a considerare la nostra vita, e quella degli altri, nella loro precarietà e nella loro debolezza, nella loro gentilezza e tenerezza. Saper riconoscere le nostre fragilità ci consente di essere di aiuto agli altri, sulla scia di parole e di gesti, di silenzi e di lacrime, che smuovono le montagne dell’indifferenza, dell’apatia, della noncuranza che inaridiscono l’anima.

Parole per concludere

Desidero concludere con la citazione che Borgna riporta di uno scritto di Rilke sulle parole che aiutano a vivere: “E se vi debbo dire ancora una cosa, è questa: non crediate che colui che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare quelle parole”.

 

Fonte: E. Borgna (2017): “Le parole che ci salvano”, Ed. Einaudi.